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SOS inglese: si studia troppo, si parla poco. E male.

by Angela Teatino, on 01/10/18 18.15

È una lunga e appassionata storia di amore, fascino e frustrazione il rapporto tra gli italiani e la lingua inglese. Ci s’innamora quasi subito della sua musicalità, della perfetta alchimia tra ritmo e suono, dell’equilibrio perfetto tra forma e senso.

Tra i banchi di scuola, però, sempre più spesso svanisce quella magia che tiene incollati migliaia di adolescenti italiani alle loro serie TV preferite, divorate per ore in versione originale e ottima occasione di arricchimento lessicale e allenamento spontaneo all’ascolto. Non solo. Persino la capacità di riprodurre a memoria il testo di una canzone con strutture linguistiche complesse si scontra con la frustrazione di una conversazione in inglese timida, impacciata, che sembra non voler decollare mai.

Indagini e studi recenti indicano gli italiani come fanalino di coda europeo nelle competenze in inglese, soprattutto a livello d’interazione orale: lo parliamo meno e peggio degli altri, nonostante anni di fill in the gaps e di sforzi impiegati a livello politico e legislativo.

English exercises: fill the gaps

Dal 2003, infatti, lo studio dell’inglese è obbligatorio dalla scuola primaria, mentre la quasi totalità degli alunni delle scuole medie studia due lingue straniere. Enormi risorse finanziarie sono state stanziate dal MIUR (3 milioni di euro solo negli a.s. 2015-16 e 2016-17) per promuovere e accompagnare l’introduzione dell’insegnamento dell’inglese con metodologia CLIL: acronimo di Content and Language Integrated Learning, è una metodologia che prevede l’insegnamento di contenuti in lingua straniera al fine di favorire sia l’acquisizione di contenuti disciplinari sia l’apprendimento della lingua straniera. In tale direzione, sono state attivate una serie d’iniziative, azioni e piani, tra cui percorsi di formazione in servizio per i docenti di disciplina non linguistica delle scuole secondarie di secondo grado, finalizzati all’acquisizione delle competenze metodologico-didattiche e linguistiche per il raggiungimento del livello C1 (QCER).

Scala Livelli CFER

I risultati, però, sono scarsi e deludenti rispetto agli sforzi profusi.

Come riportato da Il Sole 24 Ore che analizza in dettaglio i risultati degli ultimi test Invalsi, prove scritte che valutano la preparazione degli studenti e la qualità del sistema scolastico, evidenziandone efficacia e criticità, la conoscenza a scuola dell’inglese resta debole con “il 44% degli studenti di terza media che non raggiungono il livello A2 - e cioè la sufficienza - nella comprensione dell’inglese. Percentuali che al Sud superano il 50 per cento.”

Non va meglio nella secondaria di secondo grado, dove il livello atteso – e quasi sempre disatteso - al termine del quinquennio d’istruzione dovrebbe essere il livello B2 del QCER (Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue), sottoposto anch’esso a valutazione con test INVALSI a partire dall’anno scolastico in corso.

Inversamente proporzionale ai livelli di competenza raggiunti a scuola è la spesa a carico delle famiglie per corsi privati, soggiorni studio all’estero e conseguimento delle certificazioni: in sostanza, meno impariamo a scuola, più spendiamo al di fuori. Un investimento che si rivela necessario per compensare un deficit – quello linguistico e culturale – di fondamentale importanza per lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l'inclusione sociale e l'occupazione, come declinato nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 che individua 8 competenze chiave per l'apprendimento permanente. Tra queste, la comunicazione nelle lingue straniere condivide essenzialmente le principali abilità richieste per la comunicazione nella madrelingua. Ovvero “la capacità di comprendere, esprimere e interpretare concetti, pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale sia scritta - comprensione orale, espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta - in una gamma appropriata di contesti sociali e culturali, istruzione e formazione, lavoro, casa, tempo libero, a seconda dei desideri o delle esigenze individuali.”

la platea di un'aula magna

Le cause di tale scenario poco rassicurante sono molteplici: ad una pigrizia culturale all’ascolto e ad una mancata predisposizione alla visione di contenuti in lingua straniera - ormai quasi genetica – si associano la formazione dei docenti italiani di lingua straniera e le metodologie didattiche non sempre finalizzate ad un’acquisizione della lingua straniera per scopi comunicativi.

L’inglese insegnato e appreso a scuola resta per lo più cristallizzato in una serie di nozioni grammaticali e strutture linguistiche che - se pur necessarie a consolidare le conoscenze di una lingua straniera – non trovano applicazione in situazioni comunicative reali, spontanee e naturali. Anzi, spesso, laddove l’interazione avviene tra parlanti nativi italiani con ruoli diversi  - docente e alunno - il contesto scolastico d’aula formale può inibire la comunicazione e con essa soprattutto il potenziamento dell’abilità di speaking, facendo sorgere inconsciamente il cosiddetto “filtro affettivo”, ovvero quella difesa psicologica che la mente attiva quando si agisce in stato di ansia o per paura di sbagliare.

Chi lavora quotidianamente in ambito scolastico, confrontandosi con bisogni e personalità differenti, sa bene quanto l’emotività possa funzionare da “acceleratore” o “freno” ai processi di apprendimento; osservando questi aspetti, Stephen Krashen, linguista statunitense, ha ripreso la nozione di filtro affettivo facendone un cardine della sua teoria di acquisizione della seconda lingua. Secondo Krashen, in presenza di un filtro affettivo attivato non si può avere acquisizione ma solo apprendimento¹. 

Il linguista statunitense Stephen Krashen sostenitore del filtro affettivo nella sua teoria di acquisizione della seconda lingua

Dalla mia esperienza diretta di docente di lingua inglese negli istituti di scuola secondaria superiore, ritengo fondamentale al fine di favorire l’acquisizione della lingua straniera creare situazioni di apprendimento informali e naturali con parlanti madrelingua.

La naturalezza di una conversazione che nasce spontanea da un evento quotidiano, dalla condivisione di un’esperienza o dallo scambio di informazioni o opinioni pone i partecipanti in una situazione emotiva piacevole, di grande partecipazione e intesa che favorisce l’acquisizione, trasformando le conoscenza in competenze.

È in tale situazione che il fill in the gaps funziona. Perché aiuta a riempire i vuoti del silenzio.

¹Krashen, S. D., Principles and Practice in Second Language Acquisition(1982), University of Southern California

 

Angela Teatino è Docente di inglese certificata MIUR presso l'ISS "Lotti" di Andria e Docente di Storia e Teoria della Traduzione presso la scuola per Mediatori Linguistici "Carlo Bo".

 

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